Onorevoli Colleghi! - La riforma del governo del territorio è tra le più urgenti e necessarie per la modernizzazione del Paese.
      Con questa convinzione si presenta, come rappresentanti della maggioranza di centrosinistra, una nuova proposta di riforma nella attuale legislatura, che tiene conto dei tentativi di riforma maturati anche nella XIV legislatura.
      Nella legislazione statale siamo infatti ancora fermi ai princìpi della legge n. 1150 del 1942, mentre la realtà delle cose è fortemente cambiata.
      L'urbanistica di espansione si è arrestata, crescono le esigenze di recupero e di riqualificazione delle città esistenti (si pensi alla conversione delle aree industriali dismesse), aumenta l'esigenza di governare le trasformazioni con strumenti flessibili e non tramite rigide e impraticabili pianificazioni.
      Anche alla luce del nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione sussiste la competenza statale per una legge di soli princìpi che stabilisca contenuti generali e strumenti del governo pubblico del territorio. Princìpi che costituiscono appunto delle fondamenta, delle basi comuni, per l'esercizio dell'autonomia regionale, in una stagione in cui è ben avvertita l'esigenza di policies non stataliste, ma coerenti sul piano nazionale.

      D'altra parte, l'ipotesi di una totale regionalizzazione delle competenze urbanistiche può ritenersi irrealistica e criticabile, anche alla luce dei lavori della Commissione parlamentare consultiva in ordine all'attuazione della riforma amministrativa e degli articoli 54-59 del decreto

 

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legislativo n. 112 del 1998, attuativo della «legge Bassanini» n. 59 del 1997.
      In primo luogo, perché «i programmi innovativi in ambito urbano» nonché i grandi interventi infrastrutturali, i programmi di opere pubbliche statali, gli obiettivi principali di tutela ambientale e paesaggistica, culturale, di promozione dei valori dell'architettura e di difesa del suolo, richiedono certamente l'esercizio di funzioni statali. Occorre, al riguardo, considerare che l'ambiente e l'ecosistema sono attribuiti alla competenza esclusiva dello Stato unitamente alla materia «tutela della concorrenza», il che, in una urbanistica sempre più procedimentalizzata e negoziale, non è certo irrilevante. Appartengono inoltre alla competenza esclusiva dello Stato il regime civilistico delle proprietà, oltre che il regime sanzionatorio.
      In secondo luogo, perché tali competenze sussistono in tutti i Paesi europei, sebbene con differenti assetti organizzativi, e non vi è ragione per pervenire in Italia a diverse soluzioni. In terzo luogo, realisticamente, non è certo ragionevole lasciare alla scoordinata proliferazione di modelli regionali l'intero onere della riforma, con tempi e modi di attuazione inevitabilmente diversi: ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione vigente, il legislatore statale ha il dovere di offrire un quadro aggiornato e moderno di «princìpi» legislativi, abrogando la legislazione previgente, proprio per favorire l'esercizio consapevole delle prerogative regionali.
      Non può poi essere trascurato che la riforma costituzionale del citato articolo 117 conserva nell'ambito della legislazione concorrente il «governo del territorio» e che, nonostante il fallimento della nuova riforma costituzionale della XIV legislatura, a seguito del referendum, vi è ampia convergenza tra le forze politiche e in Parlamento circa la necessità di riconoscere la competenza dello Stato sulle grandi reti infrastrutturali.
      Per queste ragioni, non si può non essere favorevoli alla sollecita approvazione di una legge statale di soli princìpi per il governo del territorio con contestuale abrogazione delle leggi previgenti.
      L'Italia deve individuare nella ricchezza e nelle peculiarità del proprio territorio, nelle bellezze naturali, nei giacimenti culturali, nelle filiere della qualità «glocale», nella sinergia con il turismo, non già fattori di compatibilità con lo sviluppo economico, ma una vocazione centrale, un asset forte dello sviluppo del made in Italy.
      L'Italia deve inoltre concentrare politiche, azioni e risorse in una grande opera di riqualificazione dell'esistente (dai centri storici alle aree industriali dismesse), frenando il consumo di nuovo territorio e perseguendo i fini primari della realizzazione delle grandi reti dei trasporti e della mobilità e delle nuove esigenze abitative proprie di una società aperta e integrata.

      Nel merito della riforma legislativa un quadro di contenuti può dirsi da tempo definito e da più parti condiviso, come pure alcuni elementi di analisi.
      D'altronde non sono mancati, nelle precedenti legislature, tentativi avanzati e maturi di riforma: tra questi è rilevante richiamare il testo elaborato del professor Paolo Stella Richter come pure, nella XIII legislatura, il «testo Lorenzetti», sintesi di un articolato percorso di proposte di legge e di audizioni dei principali soggetti culturali, scientifici, istituzionali, economici operanti nel settore.
      Nella XIV legislatura vi è stato un proficuo e comune lavoro intorno alla proposta di legge dell'onorevole Lupi (atto Camera n. 103) di cui tuttavia non abbiamo condiviso carenze e omissioni e un'inaccettabile equiparazione del ruolo del pubblico e del privato anche nelle scelte di programmazione.

      Contributi rilevanti ai temi della riforma, sotto molti profili, sono negli anni recenti pervenuti dall'intensa attività dell'Istituto nazionale di urbanistica, con riflessi disciplinari e legislativi ampiamente sperimentati a livello regionale e comunale.
      Si osserva, nel dibattito politico, che la legge nazionale di princìpi potrebbe essere di modesto rilievo perché, ormai, la riforma del governo del territorio è già stata fatta dai legislatori regionali.
 

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      Se si ha riguardo alla legislazione regionale recente in effetti l'obiezione può apparire fondata poiché molte regioni italiane si sono dotate di propri modelli spesso innovativi e non privi di una coerente sistematicità, sicché una legge nazionale di princìpi non può non avere una natura ricognitiva di princìpi già affermati a livello regionale e, anche, negli ambiti dell'autonomia comunale.
      Ma, se si riflette più a fondo, questa natura «ricognitiva» della legislazione di princìpi non deve intendersi come un limite quanto piuttosto, ex adverso, come una conseguenza naturale dell'attuazione del principio di sussidiarietà verticale che predilige lo svolgimento delle funzioni di governo e dunque anche delle scelte legislative, al livello più basso nella scala territoriale.
      Questa considerazione non si traduce però in un compiacimento per un certo, diffuso, «federalismo dell'abbandono», in cui i diversi attori si muovono in solitudine secondo schemi autoreferenziali, meramente rivendicativi di competenze e spesso competitivi.
      Nello svolgimento delle politiche di governo del territorio è anzi necessario che tutti gli attori siano in campo: tutti, anche lo Stato.
      È agevole constatare l'utilità di questo diverso modello in materia di infrastrutture, di ambiente, di paesaggio e di regole generali sulle proprietà e sulla concorrenza.
      Ciò significa che la legge di princìpi fondamentali deve farsi carico di questa visione nazionale, non statale, delle diverse questioni e non deve rinunciare, sulla base dell'assetto costituzionale, a scelte innovative e non meramente ricognitive di princìpi desunti dalla legislazione regionale.
      In sintesi non è forse inutile ricordare che in Italia l'urbanistica e il governo pubblico del territorio hanno conosciuto, in specie negli anni sessanta e settanta, un forte scontro ideologico con connotati peculiari rispetto ad altri Paesi.
      Si è affermata, in sostanza, una concezione dell'urbanistica come disciplina di tutte le trasformazioni, gestione e usi del territorio e degli interessi plurimi e diversi che in esso hanno sede («panurbanistica») e si è ampiamente ritenuto che gli strumenti urbanistici fossero deputati a perseguire fini politici generali.
      Si è determinato un notevole conflitto sia all'interno dei diversi soggetti istituzionali titolari di interessi radicati sul territorio sia tra questi e i soggetti privati (basti pensare alle vicende irrisolte del regime giuridico delle espropriazioni, dei vincoli, della disciplina generale dei suoli edificabili).
      Negli anni ottanta, a fronte di una crisi evidente anche sul piano disciplinare dell'urbanistica e ad un parziale arresto della logica dell'espansione edificatoria, si sono affermate le politiche di deregulation o, meglio, di deroga ai piani (localizzazione con legge di opere pubbliche, meccanismi di intese Stato-regioni ai sensi dell'articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977, promozione delle «varianti automatiche» anche attraverso i nuovi istituti della «conferenza di servizi» e degli «accordi di programma»).
      L'effetto di tali politiche, unitamente alle nuove tendenze legislative volte ad affermare la preminenza dell'ambiente sull'urbanistica (vedi leggi n. 183 del 1989, n. 305 del 1989, piani paesistici, eccetera), è stato quello di determinare la crisi irreversibile del sistema di pianificazione del territorio delineato dalla legge fondamentale n. 1150 del 1942, sostituendo surrettiziamente al criterio ordinatore della «gerarchia tra i piani» quello della «gerarchia degli interessi», di volta in volta emergenti.
      Peraltro, dinanzi alla stagnazione della riforma legislativa, occorre prendere atto di un fenomeno fortemente innovativo, nella forma e nella sostanza, degli anni recenti: l'affermazione di politiche governative finalizzate al recupero e alla riqualificazione urbana e ambientale, condotte attraverso decreti ministeriali anzichè atti legislativi.
      Trattasi delle politiche statali variamente intitolate ai programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio, ai patti territoriali, ai contratti
 

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di quartiere e ai programmi integrati di intervento (questi ultimi anche regionali).
      In effetti queste politiche, caratteristiche dell'esperienza più recente, hanno in comune una accentuata eterogeneità dei fini (recupero, riqualificazione, nuove costruzioni) e dei mezzi (attivazione di risorse pubbliche e private).
      Esse hanno il merito di affermare una visione integrata e sostenibile delle azioni sul territorio secondo una logica, per così dire, di «piano-progetto», innovando rispetto alla tradizionale scissione tra pianificazione territoriale e programmazione attuativa.
      Pur tuttavia permangono molti e rilevanti punti di tensione irrisolti: primi tra tutti, il rapporto con il sistema di pianificazione ordinario e il rispetto dei princìpi di concorsualità e di trasparenza nella scelta dei partner privati per l'esecuzione delle opere pubbliche.
      La stagione che potremmo definire dell'«urbanistica dal basso» o dell'«urbanistica per bandi» non sembra in grado di risolvere interamente i principali nodi concettuali e giuridici.
      In particolare, occorre dare maggiore stabilità ed efficacia giuridica alle intese e agli accordi tra enti pubblici, evitando la proliferazione dei «piani per visioni», spesso frustranti e dispersivi delle risorse pubbliche, e orientando le politiche alla selezione delle «azioni vincenti» e sostenibili nella realizzazione: le best practices sono utili, ma non sufficienti.

      È necessario un nuovo approccio ai problemi del settore in grado di razionalizzare le principali esperienze regionali e comunali e di giovarsi della dottrina, delle competenze disciplinari e delle analisi che sono emerse nell'intenso dibattito degli anni recenti, pervenendo a un profondo rinnovamento di nozioni, teorie e istituti sul piano giuridico e disciplinare.
      Occorre riaffermare la necessità, di principio e tecnico-operativa, di un razionale sistema di pianificazione del territorio senza indulgere in posizioni apologetiche del piano e correggendo gli eccessi statalisti (o comunali) del passato e del presente.
      Un tale impegno, che non si attua solo in via legislativa, è ovviamente condizione indispensabile anche al fine del rilancio dell'economia nel settore edilizio e delle opere pubbliche e della promozione di uno sviluppo ambientalmente sostenibile.
      La direzione di marcia emersa dalle esperienze degli anni più recenti e dalle proposte di riforma culturalmente più mature è ben chiara.
      Legge di princìpi e revisione normativa; programmazione solo strategica e di coordinamento a livello regionale; principio di copianificazione, sulla scorta dell'esperienza francese, per rendere più efficace il coordinamento intersoggettivo; nuovo piano territoriale provinciale fondato sul sistema ambientale (invariante cogente) e sul sistema delle infrastrutture e dei servizi; incentivazione delle aggregazioni tra comuni e delle azioni di marketing territoriali; revisione della pianificazione comunale attraverso l'affermazione del principio della non obbligatoria estensione del piano regolatore all'intero territorio comunale e la nuova articolazione in piano strutturale-direttore, non vincolistico e di medio periodo, e piano-progetto operativo, vincolistico e, in alcuni modelli, legato al mandato politico-amministrativo; integrazione preventiva di tecniche di tutela ambientale nella pianificazione urbanistica (principio di sostenibilità ambientale); marginalizzazione, per quanto possibile, dell'esproprio e dei vincoli preordinati; perequazione tra le proprietà inserite nei comparti di trasformazione; una più netta distinzione tra regime degli interventi sull'edificato e opere nuove (le regole per gli interventi minori sul costruito non possono essere le stesse dell'urbanistica di espansione e di riqualificazione intensiva); abbandono dell'attuale logica quantitativa degli standard, in mille modi derogata, in favore di standard prestazionali o reali, ossia di volta in volta valutati nell'ambito del piano-progetto operativo o nel piano comunale dei servizi e delle infrastrutture; superamento dell'antica logica dello zooning monofunzionale; determinazione di regole per la disciplina del procedimento di negoziazione urbanistica, anche ai fini
 

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dell'attuazione del piano-progetto operativo, garantendo trasparenza, partecipazione e par condicio concorsuale tra gli operatori; eliminazione della commistione tra opere di urbanizzazione realizzabili direttamente e a scomputo degli oneri di concessione e le opere pubbliche maggiori, la cui progettazione e costruzione devono essere soggette, sopra soglie determinate, alle regole delle gare comunitarie degli appalti; semplificazione amministrativa delle procedure; un nuovo approccio basato su un'«amministrazione per risultati» e una «pianificazione per obiettivi» coerente con il principio della separazione delle funzioni tra organi politici e responsabili della gestione amministrativa; una più ampia previsione dei nuovi strumenti di partecipazione dei cittadini alle scelte urbanistiche, superando sia il ristretto istituto delle «osservazioni» successive all'adozione sia il divieto di partecipazione posto dall'articolo 13 della legge n. 241 del 1990.
      I temi indicati costituiscono elementi dell'esperienza di «riforma dal basso», variamente praticata dalle regioni e dagli enti locali pur in presenza di una legislazione statale ormai antica e inadeguata.
      Si tratta dunque di rinnovare la dogmatica dell'urbanistica di tradizione e di affermare i nuovi princìpi.
      I princìpi di «sussidiarietà, adeguatezza, autonomia e copianificazione», necessari per la definizione di efficaci sistemi di pianificazione e di adeguate procedure per la formazione degli strumenti; il principio di «equità» con la definizione di strumenti generali «strutturali», vale a dire non prescrittivi, non vincolistici (se non per i vincoli ricognitivi per i quali va confermata la atemporalità e la non indennizzabilità) e non conformativi dei diritti proprietari, e di strumenti «operativi» prescrittivi, vincolistici e conformativi, basati, in via ordinaria, su modalità attuative perequative e solo in via eccezionale su modalità espropriative; il principio di «sostenibilità», a cui riferire ogni processo di trasformazione territoriale, con la limitazione del consumo di suolo extraurbano non accompagnato da adeguate misure di compensazione ecologica, la subordinazione delle trasformazioni ad una adeguata mobilità di massa e la limitazione del traffico automobilistico individuale, la diffusione della compensazione ambientale come strumento fondamentale della gestione territoriale; il principio della «partecipazione», per garantire la massima trasparenza e democrazia nella formazione delle decisioni; il principio di «trasparenza» della concorsualità nei procedimenti di negoziazione urbanistica.
      Siamo peraltro convinti che le amministrazioni che, ai differenti livelli, concorrono nell'azione di governo del territorio devono essere impegnate a:

          a) promuovere la qualità della vita degli abitanti attraverso:

              1) l'offerta di spazi e di servizi che soddisfino bisogni individuali e favoriscano relazioni sociali;

              2) la riduzione del tempo destinato agli spostamenti individuali e collettivi;

              3) la tutela della salute attraverso la riconversione dei fattori che producono agenti inquinanti;

          b) sviluppare il senso e il valore della cura, della cultura, dell'identità dei luoghi generatori dei diritti di cittadinanza;

          c) affermare il valore imprescindibile dell'unità del territorio nella globalità dei significati, ecologici, storici, culturali e sociali.

      La presente proposta di legge nasce dunque dal contenuto della vasta sperimentazione riformistica degli anni recenti, perseguita da Governi di diversa connotazione politica, a dimostrazione della sussistenza di un campo di esigenze ampiamente condiviso tra le diverse forze politiche, pur nella diversità delle soluzioni.
      Il capo I è dedicato ai diversi ambiti di competenza statale: esclusiva, in materia di tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali, in materia di ordinamento civile e penale e di regime delle proprietà, in materia di tutela della concorrenza nonchè nella definizione dei livelli

 

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minimi essenziali dei sistemi delle infrastrutture, delle attrezzature urbane e territoriali dei servizi; concorrente, nella definizione dei princìpi del governo del territorio e dei princìpi ispiratori di sussidiarietà, sostenibilità ambientale ed economica, concertazione, partecipazione, pari opportunità nella negoziazione, perequazione, efficacia, efficienza, economicità, imparzialità e semplificazione dell'azione amministrativa.
      Il capo II della proposta di legge puntualizza le competenze statali incidenti in materia urbanistica nell'intento di offrire un quadro unitario e realistico delle diverse politiche territoriali.

      In coerenza con la legislazione più recente in materia di lavori pubblici, viene tuttavia affermata l'esigenza di una più specifica precisazione dell'esercizio coordinato delle funzioni statali, attraverso la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo n. 281 del 1997, e la necessità di valorizzare il ruolo tecnico del Consiglio superiore dei lavori pubblici, da intendere quale conferenza di servizi ad impronta federalista.
      Viene altresì affermato il principio, che deve essere svolto in coerenza dalle legislazioni settoriali, del raccordo delle tutele cosiddette «separate» (parchi, autorità di bacino, sovrintendenze e altri soggetti pubblici titolari di interessi pubblici) con gli atti di pianificazione urbanistica con l'obiettivo esplicito di coordinare, attraverso sedi di codecisione e intese procedimentali, le tutele settoriali con gli atti di pianificazione.
      È necessario affermare una visione unitaria del governo del territorio.

      Il capo III specifica i princìpi fondamentali del governo del territorio con un'attenzione rilevante per le principali innovazioni culturali e disciplinari emerse negli anni recenti.
      L'articolo 4 richiama il fondamentale principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, principio di rango costituzionale, nonchè il criterio di riserva amministrativa degli atti di governo del territorio in capo ai comuni, definiti soggetti primari nel governo del territorio.
      Viene in tale modo rimosso il principio di rigida gerarchia dei piani, che caratterizza la legge n. 1150 del 1942, lasciando agli enti territoriali e alla regione un'ampia libertà di autodeterminazione.
      L'articolo 5 definisce il governo del territorio una «funzione pubblica» che si attua «attraverso una pluralità di atti, istituti e tecniche di diverso contenuto disciplinare, di natura pubblicistica e privatistica».
      Si evidenziano, in tale modo, la natura inevitabilmente pubblicistica della funzione e, nel contempo, la flessibilità e l'articolazione dei mezzi e degli strumenti (urbanistica negoziale, programmazione partecipata, società di trasformazione urbana, eccetera), superando gli anacronistici caratteri di unilateralità e di autoritativa tipici degli atti urbanistici tradizionali.
      Il governo del territorio è ispirato al rispetto degli interessi pubblici primari indicati dalle leggi e al perseguimento «dell'interesse pubblico concreto individuato attraverso il metodo del confronto comparato tra interessi pubblici e privati, sulla base dei criteri della partecipazione e della motivazione pubblica delle scelte». Devono essere evidenziate altre due rilevanti innovazioni. La prima riguarda la pianificazione, definita «la principale, sebbene non esclusiva, forma di governo del territorio», con ciò superando le tradizionali nozioni. Vengono inoltre indicati due distinti livelli: gli atti di contenuto strategico strutturale che non hanno efficacia conformativa delle proprietà e gli atti di contenuto operativo, comunque denominati, che disciplinano il regime dei suoli e hanno efficacia conformativa delle proprietà, ai sensi dell'articolo 42 della Costituzione.
      Il comma 5 del medesimo articolo 5 determina una scelta di grande rilievo: viene stabilito, risolvendo in larga misura una vexata quaestio, che il territorio non urbanizzato è edificabile solo per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l'agricoltura, l'agriturismo e l'ambiente e che le regioni stabiliscono i casi ulteriori
 

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di edificabilità, per categorie generali, degli ambiti del territorio non urbanizzato.
      In coerenza con la giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale, e rinviando all'autonomia delle regioni le scelte più specifiche, viene in tale modo posto il principio della non edificabilità «naturale» del territorio non urbanizzato, che è conforme alle esigenze di salvaguardia del nostro territorio e del paesaggio, che costituiscono risorse fondamentali per lo sviluppo civile, culturale ed economico del nostro Paese.
      È una scelta legislativa di grande rilievo che assicura basi più solide per la tutela del paesaggio e spinge verso l'azione di riqualificazione dei tessuti urbani esistenti.

      L'articolo 6 stabilisce il metodo della cooperazione e della concertazione tra i diversi soggetti istituzionali nell'intento di perseguire il cosiddetto «principio di copianificazione».
      Si vuole così superare la logica dei controlli e delle «doppie fasi» procedimentali, che determinano sovraccarichi burocratici e conflitti, realizzando un coordinamento intersoggettivo già nella fase delle scelte più rilevanti che investono, inevitabilmente, una pluralità di interessi pubblici differenziati di cui sono titolari enti diversi.
      È interessante evidenziare che in sede di conferenza di pianificazione possono essere previste forme di compensazione economico-finanziarie a favore degli enti e dei territori che risultano penalizzati o comunque gravati dai maggiori oneri di impatto ambientale. Un tema di grande rilievo per la maggiore equità nelle azioni di ammodernamento infrastrutturale del nostro Paese.

      L'articolo 7 stabilisce il fondamentale principio di partecipazione al procedimento di pianificazione. In una nuova logica di alleggerimento delle previsioni legislative di natura vincolante risulta evidentemente ampliata la discrezionalità amministrativa nelle scelte: la ricerca dell'interesse pubblico concreto si baserà, dunque, sul confronto trasparente tra i diversi interessi pubblici e privati coinvolti che devono essere adeguatamente rappresentati nel corso del procedimento.
      D'altronde gli istituti di partecipazione, che acquistano un rilievo anche maggiore nella nuova logica della «legalità procedimentale», sono ampiamente diffusi nel contesto europeo (enquête publique in Francia, encuesta previa in Spagna, public inquiry ed examination in public in Inghilterra, legge sul procedimento in Germania eccetera), e hanno una cospicua tradizione anche in Italia, che si è arricchita con la stagione degli statuti comunali che contemplano, in diversi casi, l'istituto dell'«udienza pubblica». Saranno ovviamente le regioni e gli enti locali a definire l'articolazione più proficua dei diversi istituti nel rispetto del principio legislativo fondamentale.
      L'articolo 8 disciplina gli accordi con i privati, assai rilevanti in materia urbanistica, nel rispetto del principio di pari opportunità e attraverso procedure di confronto concorrenziale.
      L'urbanistica «negoziata» o «consensuale» è parte innegabile dell'attuale esperienza dell'administration concertée: ma essa deve svolgersi nel contesto di princìpi di rango costituzionale e di competenza statale, quali la concorrenzialità, la par condicio, l'imparzialità amministrativa, la pubblicità delle scelte (con la conseguente partecipazione dei cittadini uti cives).
      L'articolo 9 è di particolare rilievo poichè viene con esso riformato un antico «idolo» della pianificazione urbanistica: quello dello standard quantitativo che è stato di sicura utilità (e può esserlo tuttora) nella storia dell'urbanistica italiana, ma che difficilmente può essere predefinito a livello statale. Si è registrata a riguardo una tendenza univoca, nella legislazione regionale e nelle esperienze comunali, in direzione di standard qualitativi o prestazionali ossia di attrezzature urbane e territoriali e dei servizi locali necessari alla soddisfazione dei fabbisogni civili e sociali delle collettività interessate nonchè all'accessibilità e alla mobilità dei cittadini e degli utenti.
      La proposta di legge affida alla pianificazione strutturale, con riferimento a un
 

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periodo non inferiore a dieci anni, la definizione della dotazione complessiva e alle diverse modalità tecnico-operative, individuate dalle regioni e dai comuni, la precisazione più specifica, anche sulla base della concreta offerta di servizi da parte dei privati.

      È evidente che, anche per effetto dell'abrogazione normativa della zonizzazione, le regioni e i comuni saranno più liberi di definire, attraverso la «lettura» dei propri territori, i rapporti che necessariamente intercorrono tra sviluppo o riuso edilizio e infrastrutture, opere viarie, parcheggi, servizi ambientali e servizi per l'habitat, nel rispetto del principio fondamentale posto dalla legislazione statale.
      L'articolo 10 affronta il delicato tema dei vincoli urbanistici e della perequazione.
      Il primo profilo risulta notevolmente depotenziato, poichè la scelta compiuta all'articolo 5, con cui si attribuisce l'edificabilità tramite atti comunali solo nell'ambito del territorio urbanizzato, depotenzia notevolmente la problematica dei vincoli «larvatamente» espropriativi di contenuti e di valori delle proprietà.
      Anche la sostanziale eliminazione della sistematica dei piani con effetti immediatamente conformativi delle proprietà, ed aventi valore di implicita dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dei lavori, converge nella medesima direzione alleggerendo di molto i vincoli sulle proprietà.
      Viene tuttavia mantenuta, pur nel nuovo e più definito contesto, la previsione del vincolo preordinato all'espropriazione per la realizzazione di opere e di servizi pubblici o di interesse pubblico che ha la durata di cinque anni e può essere motivatamente reiterato per una sola volta (in tale caso è previsto per il proprietario un particolare indennizzo).
      Sono inoltre previste ipotesi di permuta dell'area e di trasferimento dei diritti edificatori, nel rispetto del piano comunale.
      La perequazione, ampiamente sperimentata nelle esperienze urbanistiche più recenti, è definita il metodo ordinario della pianificazione operativa con l'espresso fine dell'attribuzione dei diritti edificatori a tutte le proprietà immobiliari ricomprese in ambiti oggetto di trasformazione urbanistica e con caratteristiche omogenee.
      I diritti edificatori sono liberamente commerciabili negli ambiti urbanistici individuati e, innovazione assai rilevante sul piano operativo, i trasferimenti di cubature sono esenti da imposte.
      L'articolo 11, dedicato ai titoli abilitativi e alla negoziazione di iniziativa pubblica, recepisce il recente indirizzo legislativo, regionale e statale, che ha progressivamente esteso la denuncia di inizio attività (dichiarazione di avvio dei lavori e certificazione tecnica di conformità) di interventi edilizi dapprima in funzione sostitutiva delle «autorizzazioni edilizie» e, in seguito, anche di interventi edilizi in precedenza soggetti a concessione edilizia.
      La materia è oggetto di revisione nell'ambito del testo unico sull'edilizia (decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001) sicchè la presente proposta di legge si limita a ribadirne i princìpi e le relative competenze regionali.
      Merita di essere evidenziata la previsione secondo cui «al fine di favorire il confronto concorrenziale il piano comunale individua le tipologie degli interventi per i quali la determinazione degli oneri dovuti è libera nel massimo ed è stabilita sulla base dell'effettivo valore dell'intervento individuato tramite libera contrattazione di mercato».
      Per rendere più razionale e operativo tale sistema, in gergo definito dell'«asta delle licenze» riferita solo a progetti di trasformazione intensiva, viene previsto che i comuni hanno la prelazione civilistica nell'acquisto delle aree ritenute di rilievo strategico da reimmettere, conseguentemente valorizzate, nel mercato.
      Si tratta di un principio ampiamente previsto in altri ordinamenti europei e che offre una possibilità in più ai comuni in grado di esercitarla, quella di farsi promotori dei processi di trasformazione urbana svolgendo un ruolo di regia e di promozione.

      L'articolo 12 ribadisce i poteri di vigilanza e di controllo dei comuni sulle
 

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trasformazioni urbanistico-edilizie nel proprio territorio. Sono fatte salve le sanzioni penali, amministrative e civili previste dalle leggi statali, ferma la potestà delle regioni di prevedere ulteriori e diverse sanzioni amministrative di natura pecuniaria e interdittiva. Vengono inoltre stabiliti gli interventi di natura sostitutiva di competenza delle regioni sulla base delle esperienze consolidate nell'ordinamento.
      L'articolo 13 è di notevole rilievo poichè indica le norme statali oggetto di abrogazione. Le leggi indicate sono di stretto riferimento urbanistico poichè occorre coordinare la legislazione vigente in materia edilizia e di espropriazione con i nuovi princìpi urbanistici.
      Il comma 3, infine, stabilisce che la legge entra in vigore il centottantesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, allo scopo di consentire un congruo termine, in specie alle regioni, per l'attuazione consapevole dei nuovi princìpi.
      La presente proposta di legge, ispirata alla cultura e alle esperienze dell'«urbanistica riformista», al mutato contesto costituzionale e al lavoro svolto nella XIV legislatura, intende promuovere una riforma essenziale per la maggiore equità e competitività dell'Italia, nella convinzione che sussistano tutti i presupposti, di natura politica e disciplinare, per una sollecita approvazione nell'attuale legislatura.
 

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